SAN GIOVANNI
di
Mitì Vigliero Lami


 

Lasciarono la Lanterna nel luglio del 1097; alcuni privati genovesi avevano armato dieci galee dirette in Terrasanta per accompagnare "fortissimi guerrieri" a combattere contro i Turchi e, già che s'era lì, a tentare l'impresa d'espansione coloniale. Un anno dopo (o forse due; gli annalisti anche qui al solito battibeccano), tornarono a casa senza guerrieri ma con in tasca la donazione della città d'Antiochia e, nella stiva, i resti mortali di San Giovanni Battista recuperati a Mira e deposti in San Lorenzo. Nel 1327 il Precursore fu eletto Patrono della città, e forse qualcosa di più, visto che i genovesi in lui ebbero sempre la fiducia che si può avere in un padre amatissimo. Lo invocarono ogni volta che un pericolo minacciava la Superba; nemici invasori, epidemie, incendi, ma soprattutto violente burrasche che minacciavano il porto: le sue ceneri ogni volta venivano portate sul luogo del periglio, e la calma tornava. Miracoli testimoniati negli annali dello Stella e del Bonfandio nonché nelle Cronache del 1406, 1414, 1613, 1640, tanto che proprio in quegli anni si prescrisse una solenne processione che ogni 24 giugno, giorno della nascita del Santo, ne scortasse la sacra Arca attraverso la città fino al porto.

San Giovanni fu prediletto per secoli dai genovesi anche nella scelta dei nomi di battesino; sino a non molti anni fa, era proprio Giambattista il nome qui più comune, coi diminutivi di Gio Batta e Baciccia. Giovanni piacque subito tanto perché sereno simbolo di luce; dall'Oriente quelle galee ci portarono non solo un emblema religioso, ma un culto affascinante, dal sapore profano, fatto di fuochi e falò derivati dagli antichissimi fulgori che salutavano il solstizio d'estate. E quei falò brillarono da subito sul greto del Bisagno, sulle spiagge, sulle fasce dell'entroterra, anticamente accesi da contadini e pescatori che in tal modo s'illudevano di cacciare i draghi, gli spiriti maligni e le streghe che la notte tra il 23 e il 24 uscivano dai loro antri nascosti attirati dall'atmosfera magica che precedette di sicuro la nascita del Santo. I fuochi diventarono poi motivo di festa e di convivio; ovunque vi fosse un minimo di spazio, piazza Sarzano, Santa Maria di Castello, Principe, San Teodoro, persino sui merli di Torre Embriaci e in tutte le alture alle spalle di Genova, s'innalzavano fiamme e si ballava attorno a loro la "moresca", si cuocevano nelle braci le cipolle, quella notte terapeutiche per allontanar febbri e vermi, e migliaia di lumache, poste su grandi graticole con la bocca del guscio all'insù, coperta di olio, prezzemolo, sale ed aglio. Mangiare tutte le lumache del territorio voleva dire che non doveva piovere più: i genovesi le avevano raccolte tutte, e poi il Buon Dio non avrebbe certo fatto stare le sue piccole creature senza l'acqua...

E dove non si potevano accendere falò, si appendevano lanternine di carta rossa, verde e gialla, con dentro lumini; e poi fuochi artificiali, mortaretti, girandole, razzetti: un tripudio di luci che illuminava la notte più magica dell'anno, quella in cui bisogna raccogliere le erbe dai prati per sfruttarne appieno le virtù salutari; rotolarsi sui prati bagnati di rugiada per preservarsi dai reumatismi; esporre indumenti di lana all'aperto, affinché non vengano mai toccati dalle tarme, e infine scambiarsi promesse d'eterno amore saltando, in coppia, le braci rimaste dai falò.



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